La dichiarazione giudiziale di paternità e la revocazione di diritto del testamento (Cass. 169/2018)

Tizia conveniva in giudizio avanti il Tribunale di Velletri Caio, Sempronio e Mevio, nipoti ex sorore del defunto Plauto, Tullia, vedova di Plauto, Terenzia e Romina, sorelle di Plauto, nonché Bruto e Cassio, figli del fratello premorto del de cuius, deducendo di essere stata concepita a seguito di una relazione tra Plauto e la madre Ilia, risalente al 1967, senza che però fosse mai intervenuto il riconoscimento da parte del padre. Al compimento della maggiore età, Tizia aveva iniziato a contattare il padre biologico, incontrandolo poi con frequenza a far data dal 1986, senza che però egli mai manifestasse la volontà di riconoscere le figlie, temendo uno scandalo, anche perché nelle more si era sposato con Tullia.

Svestendo Plauto le spoglie mortali nel 2003, la sua successione era stata regolata dal testamento olografo da lui confezionato il 20.02.1990, al lume del quale Tullia aveva ricevuto in sostituzione di legittima l’usufrutto di tutto il patrimonio immobiliare e la proprietà delle somme contanti, mentre la nuda proprietà era stata lasciata a Caio, Sempronio e Mevio.

Tizia chiedeva quindi di accertarsi la paternità naturale del defunto, con la conseguente attribuzione del cognome paterno, dichiarando la revoca del testamento olografo ai sensi dell’art. 687 c.c..

I convenuti, costituitisi in giudizio, chiedevano il rigetto delle domande attoree, adducendo che dalla stessa narrazione dei fatti emergeva che il de cuius era a conoscenza dell’esistenza delle figlie, sicché la mancata modifica del testamento doveva ritenersi espressiva della volontà di confermarne il contenuto. Inoltre, non era dato invocare la revocazione nel caso in cui la dichiarazione giudiziale di paternità fosse stata richiesta in epoca successiva alla morte del genitore, impedendo a quest’ultimo di poter adeguare le proprie volontà testamentarie al nuovo evento giuridico.

Il Tribunale di Velletri accoglieva le domande di Tizia, mentre la Corte d’Appello di Roma, investita del gravame, rigettava la domanda di revocazione, annullando altresì l’attribuzione all’appellata del cognome paterno.

Ad avviso della Corte capitolina, l’art. 687 c.c. tutelerebbe solo i figli dei testatori ignari di questioni giuridiche quali la sopravvenienza di un discendente, non avendo in tali casi i testatori stessi la possibilità di adeguare le loro volontà al sopravvenire dei figli; inoltre, secondo la Corte d’appello, quando la dichiarazione giudiziale di paternità venga introdotta nel corso della vita del testatore, appare possibile applicare l’art. 687 c.c., dovendosi invece escludere l’effetto caducatorio nella diversa ipotesi in cui la dichiarazione giudiziale di paternità sia richiesta a successione già aperta, essendo quindi impedito al de cuius di poter modificare il proprio testamento, e ciò malgrado fosse consapevole dell’esistenza del figlio.

Ad avviso della Corte d’appello, insomma, l’acquisto dello status di figlio che consenta la revocazione di diritto del testamento, deriva dalla dichiarazione giudiziale di paternità o dall’introduzione del relativo giudizio avvenuti prima della morte del de cuius.

Ad avviso della Corte di cassazione, la decisione gravata, nella parte che esclude la revocazione ex art. 687 c.c., determina un’irragionevole disparità di trattamento tra i figli, non tenendo in dovuto conto il fondamento dell’istituto della revocazione, rappresentato dalla tutela dei figli in conseguenza di una modificazione della situazione familiare, configurandosi l’istituto de quo quale mezzo di tutela ulteriore, e non alternativo, rispetto a quello approntato dalle norme a tutela dei legittimari. Inoltre, la decisione della Corte d’appello determina un’irragionevole disparità di trattamento in danno del figlio che non abbia reclamato il proprio status prima della morte del genitore.

In seguito ad un lungo excursus illustrativo delle posizioni dottrinali e giurisprudenziali, avendo la decisione in commento, qui allegata, notevole importanza anche per i fini nomofilattici, perviene la Corte di cassazione alla determinazione secondo cui è errato ritenere che la revocazione vada esclusa in ragione dell’introduzione della domanda di dichiarazione giudiziale o dell’accoglimento della stessa dopo la morte del de cuius, posto che, secondo tale approccio, solo nel caso in cui la domanda o la sentenza intervengano prima della morte, il testatore avrebbe la possibilità di modificare il testamento e disporre quindi secondo la propria volontà: tale assunto è, secondo gli Ermellini, errato.

Infatti, secondo la Corte di legittimità, non si tratta di dare seguito al favor testamenti, che attiene all’interpretazione della volontà, ma bensì alla disposizione di legge, che peraltro al II comma dell’art. 687 c.c. prevede che la revocazione abbia luogo anche se il figlio è stato concepito al momento del testamento e tale norma, che fa evidentemente riferimento al caso di figlio postumo, va riferita anche all’ipotesi in cui il testatore fosse consapevole, nel momento in cui testava, dell’avvenuto concepimento, essendo altrimenti superflua.

Ad avviso della Corte di cassazione, in conclusione, “la più volte ribadita equiparazione della condizione del figlio, la cui paternità sia frutto dell’accertamento giudiziale a quella degli altri figli, impone quindi di estendere tale previsione anche all’ipotesi in cui il genitore, all’epoca di redazione del testamento, fosse cosciente dell’esistenza del figlio, che solo in epoca successiva al decesso abbia però introdotto la domanda di accertamento giudiziale”.

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